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Sembrava tanto lontano quando se ne parlava, circa un anno fa, e invece eccoci a raccontare, se non le emozioni, almeno i momenti salienti di un viaggio alla ricerca, non so ancora bene se del semplice confronto tra due diverse scuole oppure di qualche conferma sul complesso e talvolta ambiguo mondo che circonda il karate e impercettibilmente si addentra in noi attraverso gli anni di pratica.Dal primo impatto non sembrava un mondo tanto particolare: all’arrivo a Tokyo (Tokyoto, citta capitale orientale, il suo vero nome) ci siamo trovati di fronte palazzi, grattacieli, strade, auto, metrò, treni….un po’ come le nostre metropoli, se non fosse per la gente e la più che gradita compagnia del Maestro Shuhei Matsuyama che ci ha accolto e scortato fino all’incredibilmente angusto “Hotel Sakura”.
Poi una continua scoperta giorno dopo giorno, non tanto nelle cose eclatanti come le sue architetture moderne, i monumenti e i templi su cui bene o male eravamo già informati o cercavamo di informarci anticipatamente, ma nella quotidianità, nel cibo, nelle persone e nei semplici ma grandi gesti di queste persone, con cui si è instaurato un rapporto all’insegna del rispetto, nonostante l’imbarazzo e quel senso di reciproca e quasi intrigante curiosità iniziale.
D’altronde non poteva andare diversamente avendo a che fare con un popolo tutt’altro che egocentrico; anzi sembrava quasi che tutti si muovessero con lo scopo di non disturbare gli altri usando quel famoso “buon senso” che ne fa un paese di grande civiltà. Da questo punto di vista dobbiamo forse imparare qualcosa da loro.
E già in quei giorni, nel nostro piccolo ci siamo adoperati in quel qualcosa dato che eravamo un gruppo ben nutrito ma piuttosto eterogeneo per età, amicizie, interessi e spesso anche motivazioni che ci hanno spinto al viaggio; c’era però anche un desiderio comune che poteva in ogni momento ricompattare il gruppo: gli allenamenti all’università di Komazawa e il tanto atteso confronto con iil Maestro Oishi e i ragazzi giapponesi.
Mano a mano che passavano i giorni, questo desiderio cresceva sempre di più fino a culminare in vera e propria preoccupazione nel primo giorno di allenamento.
Arrivati in palestra con più di un’ora di anticipo, un po’ per precauzione e un po’ per curiosità verso il loro modo di approciarsi al karate e al dojo, siamo stati accolti, in un clima quasi surreale, da uno degli allievi più giovani che ci ha indicato con rispetto e assoluta marzialità gli spogliatoi, trasmettendoci tutto il suo imbarazzo e la felicità nell’averci come ospiti.
Proprio questo primo giorno è stato uno dei momenti più belli secondo me perché c’era in noi un misto di preoccupazione, imbarazzo e felicità per essere in un posto che era stato mitizzato dai nostri maestri. La tensione si vedeva anche dal silenzio e concentrazione in cui eravamo immersi mentre osservavamo ogni singolo movimento e ogni singolo gesto dei ragazzi giapponesi, dalla pulizia della palestra alla preparazione dei guantoni e dell’attrezatura necessaria, dal saluto al maestro non solo come tale ma come persona all’ordine di arrivo in palestra, per niente casuale, ma anzi facente parte anch’esso di un preciso rituale di preparazione all’allenamento.
Poi il primo impatto con il loro modo di approciarsi al riscaldamento contando forte in coro e noi increduli e impauriti a guardare e ripetere più che le parole, i loro gesti e via via così mentre il maestro si allenava con esercizi personalizzati: corsa, flessioni, addominali, makiwara ed esercizi di kendo.
Quindi il saluto ed ecco il primo contatto puramente fisico, nella preparazione atletica consistente in corsa esercizi vari fatti di competizioni individuali o a squadre e potenziamento, fino ad arrivare gradualmente all’allenamento della tecnica, al khion e agli scambi di kumite, mantenendo sempre alti ritmo e tensione.
Gli allenamenti erano finalizzati quasi esclusivamente alle gare di kumite e il confronto anche vivace in qualche momento era fondamentale per misurarsi e nutrire questo clima di competizione, pur mantenendo sempre il controllo e il rispetto dei compagni con i quali affrontiamo la fatica dell’allenamento e ai quali la fatica stessa ci lega perché è l’unico mezzo che rompe le nostre resistenze interne, ci accomuna agli altri e ci fa aprire il cuore nei confronti dell’allenamento e del maestro. E io credo che solo a cuore aperto si riesca a raggiungere quell’armonia che permette a ognuno di dare e ricevere il massimo dai compagni e dal maestro.
Primo esempio in questo senso è stato il M° Oishi, una delle più grandi personalità del karate mondiale, sia per il passato agonistico che per i successi come maestro; ciononostante si esprime sempre al massimo durante gli allenamenti; è piuttosto severo e preciso in palestra ma è anche altrettanto cordiale fuori come il giorno che abbiamo pranzato assieme e l’apparente distacco che c’è tra maestro e allievo viene smontato da momenti di grande umanità come quando ha curato la caviglia di Michael.
Dunque un maestro importante e semplice nello stesso tempo, che crede nel lavoro e come si è visto considera molto importante la preparazione atletica; da poca importanza allo studio della tecnica dal punto di vista estetico ma in realtà ne coglie l’essenza, studiandone in maniera particolare l’efficacia.
Il M° Oishi è un maestro di poche parole che ottiene il massimo rispetto senza mai gridare sia perché lo merita ma anche perché il rispetto non è un comandamento da imparare nella bibbia o dal dojo kun ma fa parte di loro, di una mentalità chiusa e aperta nello stesso tempo, ancorata alle proprie tradizioni ma libera dai dogmi, aperta all’innovazione, al progresso e al “diverso”; e non è da tutti.
Io sono stato molto contento di questo viaggio, soprattutto in questo contesto da karateka perché penso di aver avuto un’opportunità direi unica in cui ho potuto capire anche qualcosa del Giappone e della cultura giapponese che è strettamente collegata al mondo del karate ed è difficile da capire se non si prova sulla pelle, proprio come il karate.
Tra noi ragazzi abbiamo passato giornate molto belle e ci siamo divertiti anche con i maestri, ma non sono mancati momenti piuttosto toccanti come la visita alla tomba del maestro Funakoshi che ci ha lasciato la sua esperienza e attraverso questa eredità ha permesso a tutti noi di conoscerci, di faticare per degli obbiettivi e a noi in particolare ha pure creato il pretesto per andare in Giappone.

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